Si è aperta da pochi giorni la Sedicesima Biennale di Architettura di Venezia, una grande occasione per portare in laguna alcune delle più importanti firme della progettazione internazionale e per sviluppare una riflessione profonda sulle architetture di oggi e di domani, costruzioni e visioni che incorniciano la vita umana in ogni sua sfumatura alla ricerca di un punto di equilibrio tra realtà e immaginazione. L’edizione di quest’anno, curata da Grafton Architects, pone l’accento sul tema Freespace, lo “spazio libero” da interpretare in accezioni sempre nuove, e vede protagonista il Padiglione Italia grazie al progetto Arcipelago Italia, ideato da Mario Cucinella Architects in collaborazione con alcuni studi di architettura italiani che hanno accettato la sfida di proporre inedite prospettive attraverso le quali guardare la nostra multiforme penisola. Tra loro, lo studio Solinas Serra Architects, autore di un programma edilizio “ibrido” dedicato alla regione della Barbagia in Sardegna. Per saperne di più abbiamo intervistato l’architetto Simone Solinas. Ecco quello che ci ha raccontato.
Arcipelago Italia è un progetto che mira a tracciare una mappa territoriale del nostro Paese attirando l’attenzione su quelle aree storicamente decentrate e tuttavia sede di un patrimonio culturale inestimabile, che lega a doppio filo architettura, paesaggio, comunità. Qual è stato il vostro contributo?
“Innanzi tutto vorrei rendere manifesto che il progetto, e pertanto i crediti di questo lavoro per La Biennale di Venezia/Padiglione Italia sono frutto di un ampio “collettivo Sardegna” che comprende l’Università di Cagliari e il gruppo Sardarch. Per quanto riguarda l’oggetto architettonico penso che si sia riusciti a rispondere adeguatamente all’idea di edificio ibrido che ci è stata commissionata e pertanto questo aspetto possa intendersi come il nostro contributo specifico. Ma l’oggetto proposto in mostra è una delle possibili soluzioni alla quale arrivare dopo il lavoro complessivo portato avanti in questi mesi. Il progetto si accende e si attiva dichiarando e mostrando alcune necessità rilevate nei luoghi e tra gli abitanti della Barbagia. Esigenze che si trasformano in intenzioni e opportunità, generando a loro volta nuove risorse. La materia e pertanto il progetto stesso si converte in supporto di queste idee. Senza entrare nel dettaglio delle misure compositive, delle organizzazioni spaziali e funzionali il programma, riflesso delle necessità del luogo senza le quali ha poco significato costruire, è suddiviso sinteticamente in tre grandi blocchi: percorso sanitario, promozione della salute, ricerca. Le funzioni si combinano tra loro e i diversi usi previsti si adattano, e si adatteranno, alle necessità già espresse o che nasceranno nel tempo, al contesto esistente e quello futuro, lasciando ampia libertà per l’incontro tra le persone, consentendo che in questo crocevia accadano le più svariate cose. Asilo, laboratori, ambulatori, spazi per mangiare assieme, studiare, leggere un libro, prendere un caffè e chiacchierare si tessono tra loro dando origine a luoghi non definiti, imprecisi, aree comuni di mediazione, meticce. È un edificio ibrido perché la collettività può riconoscersi in un tutto che assume e offre connotazioni differenziate e libere per ospitare i desideri di ciascuno. Il progetto offre un luogo dove la comunità e il singolo si rispecchino, nel quale sia possibile appropriarsi di una sequenza di ambiti che formano parte di un sistema complesso, collocato come una cerniera-soglia tra paese e territorio, così come Ottana si propone ‘centroide’ rispetto alla Barbagia. È un edificio ibrido, nel nostro motto, se sarà usato e vissuto dai 0 ai 100 anni in 24 ore.”
La vostra attività progettuale da anni si divide tra Italia e Spagna. Quali sono le differenze e i tratti comuni che caratterizzano il lavoro nei due Paesi? Quanto incide nel vostro lavoro il legame con la vostra terra d’origine, la Sardegna?
“Inizierei dalla seconda parte della domanda. Non mi considero un emigrato e tantomeno sento la Sardegna come terra d’origine ancestrale; è la mia terra anche ora, adesso. Mi definirei piuttosto come un pendolare europeo. Forse la possibilità di vedere le cose da più punti di vista, e pertanto la Sardegna dall’Andalusia e viceversa, rende le cose più interessanti e si riescono a cogliere meglio le sfumature in entrambi i contesti. La possibilità di lavorare in Sardegna e per la Sardegna su un progetto sperimentale come quello per La Biennale è stata certamente una grande occasione sviluppata con grande piacere e con grande soddisfazione. Penso che la Sardegna, proprio per essere un’isola ha delle caratteristiche specifiche, delle potenzialità intrinseche che potrebbero trasformarla in un laboratorio di eccellenze nel mezzo del Mediterraneo per quanto riguarda l’architettura, ma anche per il cibo, e di conseguenza l’alimentazione, la formazione, la rigenerazione, l’attenzione e la cura dell’ambiente. Tutti temi trattati nel nostro progetto di Casa della Salute.
Se passiamo al confronto tra Spagna e Italia nell’ambito architettonico devo ripetere quello che sostengo da almeno 15 anni. Il sistema dei concorsi pubblici funziona di gran lunga meglio in Spagna, sia per quanto riguarda l’aspetto quantitativo sia quello qualitativo. Bisognerebbe imitarlo ed eventualmente migliorarlo. Chi vince un concorso (e li vincono gli architetti) si assume il diritto ed il dovere di portare avanti quella proposta per tutte le fasi progettuali dall’idea iniziale, passando per il cantiere fino alla realizzazione e alla consegna delle chiavi dell’opera conclusa ai rispettivi proprietari o clienti. Su questo aspetto l’Italia è molto indietro anche se timidi passi vengono fatti lentamente in questa direzione.”
Come definireste la vostra filosofia progettuale? Quali sono i progetti più emblematici?
“Un primo aspetto riguarda sicuramente un tema trattato nella questione precedente: i concorsi. Basare la propria attività principalmente su questo aspetto implica mettersi continuamente alla prova. È il miglior sistema per attivare una formazione continua, direi permanente, altro che crediti formativi obbligatori. Allo stesso tempo ci si mette alla prova costantemente. È ovvio che lentamente formi e definisci un tuo bagaglio personale, una tua capacità e abilità di porti di fronte ad alcune tematiche e questioni che si ripetono, ma ogni concorso è nel fondo sempre nuovo ed è come ricominciare ogni volta quasi da zero. Inoltre “praticare il concorso” permette di misurarsi con aspetti completamente differenti e non cadere nella tentazione di specializzarsi su uno stesso tema, diventando magari degli assoluti conoscitori di una certa tipologia edificatoria, ma rinunciando alla complessità e alla ricchezza che questa professione offre. Un concorso per case popolari ha alcune caratteristiche proprie che lo differenziano da un museo, un teatro, un ospedale. Ma tutti sono architettura. Nessuno merita maggior attenzione, rigore, interesse o impegno che un’altro.
Il secondo aspetto ricade nel piacere di disegnare tutto, dal piccolo dettaglio agli elementi a più grande scala. Qualcuno direbbe dal cucchiaio alla città …
Questo percorso ci ha portato a lavorare a differenti scale e su differenti tipologie di edifici. Potremmo parlare dei progetti costruiti ai quali siamo più affezionati. Certamente lo sono le 26 case popolari ad Umbrete vicino a Siviglia.
Seguite dal teatro e dall’ampliamento del comune a Vìcar vicino ad Almería.
Ma ricordiamo con emozione anche il centro chirurgico di minima invasività a Cáceres, pressoché unico al mondo.
O ancora gli asili e le scuole vicino a Granada e Siviglia. Tutti localizzati in Spagna.
In Italia solo concorsi vinti, alcuni bellissimi come quello vicino a Bergamo delle trafilerie Mazzoleni o il Centro Velico di Trabuccato nell’ex carcere di massima sicurezza sull’isola dell’Asinara, oggi Parco Nazionale. Le realizzazioni si fanno però attendere.”
Il tema scelto per la Biennale di Architettura di quest’anno è Freespace. Che cos’è o che cosa dovrebbe essere per voi lo “spazio libero”?
“Questa è sicuramente la domanda più complessa dopo mesi di discussioni sul termine ‘Freespace’ e quelli che ancora ci attendono.
Non condivido l’idea che alcuni sostengono nell’interpretazione del tema degli spazi “free” come poco progettati e ai quali si pensi che si possa dare qualsiasi uso sempre e comunque e che possano trasformarsi con minimi interventi veloci e indolori. L’architettura si progetta e si costruisce quasi sempre lentamente ed eventualmente, come la storia ci mostra, si modifica con processi complessi che richiedono grandi sforzi e anche in questo caso ampi margini di tempo e di riflessione.
La libertà o essere liberi non è sinonimo di far quel che si vuole, ma piuttosto quella di avere la possibilità di scegliere, di muoversi, nello spazio (ma che spazio?), in una direzione piuttosto che in un’altra.
Ecco quindi che bisognerebbe subito chiarire che sono le persone che hanno o dovrebbero avere un grado elevato di “free” e non lo spazio (inteso come sommatoria di spazi-pieni e spazi-vuoti che hanno piuttosto un alto grado di staticità).
Il movimento, se vogliamo libero, diventa pertanto un’importante chiave di lettura e allo stesso tempo un dispositivo fondamentale per la progettazione delle configurazioni spaziali che creiamo e abitiamo. Lo spazio è vissuto a 360 gradi, in tutte le direzioni con tempi e modi impossibili da determinare in maniera precisa come vorrebbero farci credere a volte gli scatti precisi di alcune immagini fotografiche pubblicate sulle riviste, ma anche dei disegni o dei modelli. Sono tutte riduzioni, approssimazioni, frammenti che tendono a una sommatoria impossibile da raggiungere di uno spazio indescrivibile che solo può essere vissuto personalmente da ciascuno e al quale ciascuno darà un proprio e personale valore.
Questa riflessione per chi si preoccupa di costruire, assume un valore specialmente rilevante poiché siamo noi che scegliamo, per gli altri, l’equilibrio delle forme tra vuoti e pieni lasciando più o meno gradi di libertà disponibili a chi ne usufruisce. È questa una questione fondamentale e per questa ragione nel nostro lavoro è importante ascoltare coloro i quali abiteranno gli spazi progettati e che se ne approprieranno.
Forse potremmo dire che l’interpretazione che diamo ai freespace(s) sono gli spazi-vuoti all’interno dei quali si muovono le persone. Ma è sempre una riduzione della complessità dell’architettura che abbiamo cercato di riassumere con il termine ibrido di questa Biennale di Architettura 2018 a Venezia.”