Quando negli ultimi anni il famoso storico dell’economia britannico Adam Tooze ha recuperato il termine polycrisis – in italiano policrisi, in circolazione dagli Anni Novanta – per descrivere l’attuale situazione globale nella quale le grandi crisi “interagiscono tra loro in maniera tale che l’insieme delle parti è più opprimente della loro semplice somma” molti trentenni (e non solo loro) hanno pensato che finalmente qualcuno avesse trovato la parola giusta per descrivere il contesto nel quale si sentono immersi da una vita.
Alla diciottesima edizione della Biennale di Architettura di Venezia, in corso fino al 26 novembre 2023, la curatrice di origini ghanesi Lesley Lokko ha semplicemente aggiunto un pizzico di speranza a questa inquietante consapevolezza per creare il suo Laboratory of the Future, uno spazio di riflessione architettonica fondato sulle domande, costruito sulla necessità di ripensare il senso di una progettualità che non può più permettersi di divorare le risorse sempre più scarse di cui disponiamo alla cieca ricerca del nuovo ma piuttosto è chiamata ad allargare il perimetro di ciò che possiamo recuperare, reinventare e rigenerare. In questa prospettiva, gli architetti abbandonano l’ossessione per gli edifici e si trasformano in attivatori di processi, costruttori di soluzioni elaborate attraverso uno studio multidisciplinare che prende le mosse dal tessuto materiale e relazionale esistente per generare un progresso reale, piccolo o grande che sia.
Nasce proprio da questa visione Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri, il progetto curato per il Padiglione Italia da Fosbury Architecture, il collettivo di architetti under 40 (Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino e Claudia Mainardi) che ha scelto di portare al centro della scena nove differenti progetti realizzati in Italia a beneficio di territori e comunità locali attraverso la collaborazione tra progettisti, artisti, perfomer, scienziati, scrittori e registi. L’obiettivo? Disegnare una geografia di pratiche collettive i cui effetti potessero protrarsi ben oltre i sei mesi della rassegna veneziana. Ne abbiamo parlato con loro.
Nella storia dello sport Dick Fosbury [l’altista statunitense che nel 1968 inventò il Fosbury Flop, la tecnica di salto dorsale che modificò per sempre il modo di approcciarsi alla disciplina del salto in alto, ndr] è considerato un game changer. Avete scelto di chiamarvi con il suo nome. In che cosa vi sentite game changers?
Nei progetti e nelle ricerche che abbiamo affrontato collettivamente negli anni abbiamo sempre cercato di sollevare domande, cercando di osservare criticamente la realtà che ci circonda ed il contesto in cui operiamo. Forse l’elemento comune in quello che abbiamo fatto riguarda proprio questo sguardo obliquo che in fondo rappresenta la nostra attitudine al progetto.
L’idea di Fosbury Architecture nasce nel 2013 tra i banchi del Politecnico di Milano. Quanto è stata importante l’esperienza universitaria nel formare la vostra visione?
Fosbury Architecture nasce proprio come una piattaforma per poter lavorare insieme all’intersezione tra teoria e pratica, accademia e professione in un momento in cui scarseggiavano le occasioni per i giovani progettisti e in un cui la figura stessa dell’architetto era messa a dura prova da una congiuntura avversa. Per questa ragione abbiamo guardato ad altre discipline cercando di dotarci di strumenti trasversali che ampliassero le prassi consolidate che ci erano state insegnate in università.
L’attività che svolgete come collettivo di ricerca e di design è estremamente eclettica e aperta alla contaminazione con mondi artistici e culturali apparentemente distanti dall’architettura intesa come pura costruzione di edifici. Come riuscite a integrare questi “contributi esterni” nel vostro lavoro di progettisti? Perché è importante per voi? Temete mai di non essere compresi da un certo establishment, chiamiamolo così?
Siamo stati abituati da sempre ad operare in un contesto di scarsità che ci ha portato da un lato a sviluppare una coscienza critica sull’uso delle risorse e dall’altro a cercare soluzioni anche al di là del perimetro disciplinare dell’architettura. Con buona pace per l’establishment, crediamo che oltre alla progettazione di manufatti costruiti in risposta ad una richiesta da parte del committente, un architetto possa svolgere il ruolo del mediatore creativo tra diverse forme di conoscenza in grado di tradurre in spazio una complessità fatta di istanze spesso divergenti e senza per forza l’ansia di dover costruire.
In alcune interviste avete affermato che l’architettura può offrire soluzioni ma è anche parte del problema. Che cosa intendete esattamente?
Il settore delle costruzioni, a cui l’architettura si rivolge, è tra i maggiori responsabili per le emissioni nell’ambiente e per l’estrazione ed il consumo di risorse a livello globale. Con questo non vogliamo certamente affermare che sia necessario evitare di fare architettura ma piuttosto invitare a riflettere su un uso consapevole delle risorse.
La generazione dei trentenni di oggi è cresciuta in un contesto di crisi permanente, economica, politica e climatica, e anche questa è una consapevolezza che avete fatto vostra. Come architetti, ma anche come ricercatori che di questa generazione fanno parte, pensate che sia possibile trovare se non delle soluzioni, almeno un metodo che, una volta applicato, possa permetterci di trasformare la/le crisi in corso in opportunità di cambiamento positivo?
L’architettura da sola non può certo indicare delle soluzioni, tuttavia ha la capacità di identificare delle buone pratiche in forma di piccole azioni che, sommate, possano portare a dei riscontri tangibili. Il cambio di paradigma che ci sentiamo di promuovere sta proprio in una maggiore consapevolezza della crisi ambientale in cui ci troviamo: una condizione sicuramente più sentita dalle giovani generazioni che sono cresciute nell’incertezza, ma che costringe tutta la società a ripensare all’impatto delle proprie azioni personali e collettive.
Che cosa ha rappresentato per voi la vittoria del concorso per la curatela del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia? Quale messaggio avete voluto trasmettere con Spaziale? Quali conseguenze immaginate per i processi collettivi che avete attivato? Ancora una volta, anche alla Biennale, avete provato a cambiare le regole del gioco.
Sin dalla fase di redazione della proposta curatoriale in occasione del concorso ad inviti, abbiamo inteso il Padiglione Italia come l’occasione per rappresentare una generazione di giovani professionisti che con la loro pratica, situata lungo il perimetro di quello che è tradizionalmente considerato “architettura”, stanno allargando i confini della disciplina. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di mettere in discussione il formato di mostra, trasformando un evento temporaneo in un’occasione per attivare progetti pionieri, pensati per sopravvivere alla durata semestrale della Biennale Architettura. Spaziale è un progetto collettivo e collaborativo, che speriamo darà riscontri tangibili sui territori in cui è intervenuto, oltre che nel dibattito disciplinare del nostro paese.
Patrik Schumacher, Principal Architect dello studio Zaha Hadid, ha criticato la Biennale di quest’anno definendola “anti-architectural” e sostenendo che tra le tante proposte in mostra a mancare sia proprio l’architettura. Che cosa rispondete?
È sicuramente un’edizione della Biennale che sposta la narrazione dal progetto di architettura al discorso. Lesley Lokko vede il futuro dell’architetto nel practitioner, un profilo che in qualche modo assomiglia ai progettisti che abbiamo invitato. Più che anti-architectural potremmo dire che guarda a una nozione più ampia di architettura, riconoscendo ai progettisti il ruolo di tradurre in forma le politiche del futuro.
Oltre al lavoro per la Biennale, quali sono i progetti che avete realizzato di recente di cui andate particolarmente orgogliosi?
Nell’ultimo anno ci siamo concentrati quasi completamente sul progetto del Padiglione Italia che ha impegnato oltre a noi cinque anche Valeria e Lorenzo, i nostri collaboratori il cui lavoro è stato fondamentale. Recentemente, appena prima della nomina, abbiamo realizzato una monografica a Vienna intitolata Characters che, in un set-up immersivo in moquette riciclata, metteva a sistema i nostri lavori di ricerca sugli spazi domestici. Qualche mese prima abbiamo invece inaugurato l’Urban Center della città di Prato presso il Centro Pecci, un interno polifunzionale concepito come una macchina scenica.
Allarghiamo l’orizzonte. Quali sono, secondo voi, le esperienze creative, le personalità dirompenti, non necessariamente vicine all’architettura, alle quali bisogna guardare oggi nel mondo per intravvedere scorci di futuro?
Probabilmente le esperienze creative più interessanti, in questo momento, sono da ricercare al di fuori dell’architettura e in qualche modo con il progetto Spaziale abbiamo provato ad intercettarle. Ciascun progetto è infatti il frutto di una collaborazione tra una pratica di architettura ed un advisor proveniente da altre discipline creative tra cui artisti e performer, registi e scrittori, esperti di alimentazione ed intelligenza artificiale.
Dieci anni dopo la vostra “nascita”, quali sono gli obiettivi che come Fosbury sentite di avere raggiunto e quali invece rappresentano ancora una sfida da vincere?
Indubbiamente l’obiettivo più importante è stato quello di essere riusciti a mantenere il progetto fedele alle sue premesse iniziali: una piattaforma di ricerca in cui lavorare collettivamente. Forse la sfida futura è quella di farlo diventare il centro delle nostre vite professionali.