HomeArchitetturaFrancesca Venturoni, l’anima eclettica dell’architettura contemporanea

Francesca Venturoni, l’anima eclettica dell’architettura contemporanea

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L’architettura e la moda, i classici del design e i mobili su misura, gli articoli su Vogue e la comunicazione social: impossibile descrivere in poche parole l’universo eclettico di Francesca Venturoni, fondatrice dello studio che porta il suo nome e astro nascente dell’architettura milanese. Per provarci, abbiamo deciso di far parlare direttamente lei, che in questa intervista esclusiva ripercorre la sua storia professionale e riflette sulla sua visione dell’architettura e del design, tra sfide del presente e aspirazioni future.

Un ritratto di Francesca Venturoni. © Helenio Barbetta

Qual è stato il percorso professionale che ti ha portato a fondare il tuo studio milanese? Quali sono state le tappe più importanti per la tua formazione?

Ho avuto la fortuna di lavorare in due degli studi più importanti del mondo: Foster + Partners e Zaha Hadid Architects. Ma posso dire che anche la mia esperienza da Paolo Soleri ad Arcosanti è stata altrettanto importante. Parliamo di un uomo che progettava ponti immaginari, costruiva una città sostenibile nel deserto e si finanziava vendendo campane in ceramica e bronzo. A volte ci poniamo dei limiti che esistono solo nella nostra mente. Ma tornando a noi, la vita è strana e dopo l’Arizona e la City fondi il tuo studio a Milano e sei la persona più felice del mondo.

© Helenio Barbetta

Il residenziale è uno dei settori che ti piace esplorare. Quali sono gli aspetti più stimolanti e quelli più sfidanti legati alla progettazione di abitazioni private? Qual è il tuo approccio nel relazionarti con i committenti?

Raccontare una storia attraverso la vita degli altri appare difficile, ma in fondo è come un regista che gira una sceneggiatura che non ha scritto lui, cosa che peraltro accade nella maggior parte dei casi. Quando invece si lavora su uno spazio commerciale l’essenza del brand è più definita.

© Helenio Barbetta

La pandemia ha messo in luce nuovi lati del tuo lavoro sulle abitazioni?

Che si tratti di un appartamento o di una casa, ha messo in luce una differenza fondamentale: scegliere di usare la propria abitazione per nascondersi dal resto del mondo, appartandosi dentro la propria tana, oppure considerarla il posto dove fare ritorno dopo il cosiddetto “viaggio dell’eroe” che ci ha portato a mettere in discussione il nostro essere per evolvere e abbracciare la diversità.

© Michele Bonechi

Un tratto che caratterizza molti dei tuoi lavori è la forte presenza del colore e l’inserimento sapiente di pezzi di design capaci di rendersi protagonisti dello spazio. Tutto ciò contribuisce a rendere l’insieme di volta in volta unico e personale. Eppure, un fil-rouge si nota. Come descriveresti il tuo stile progettuale?

Il minimalismo è ormai un ricordo e, sia nel caso di abitazioni che di spazi pubblici, i clienti si sentono più liberi di esprimersi. Il mio approccio è in equilibrio fra il rispetto dello spirito dei luoghi, magari attraverso i colori o qualche pezzo più rappresentativo, e l’utilizzo di materiali dell’architettura più duri come il cemento o l’acciaio.

© Michele Bonechi

Spesso, in effetti, le tue case riprendono e rielaborano alcuni elementi del contesto, urbano e strutturale, in cui si trovano. Accade per esempio nel progetto per la tua abitazione e in quello per Casa Trevi. Come hai lavorato in questi casi?

Wright, il noto architetto, posizionava un quadrato di ceramica rosso fuori da ogni edificio in cui tutto era stato deciso da lui senza interferenze. Ho avuto la fortuna di avere carta bianca in entrambi progetti. Uno per evidenti motivi, anche se mio marito, essendo architetto, avrebbe potuto fare resistenza; l’altro per sintonia con il committente. E allora mi sono davvero divertita a ricercare pezzi e tonalità in linea con l’essenza dei luoghi appunto. Non tutti i progetti hanno la fortuna però di essere a Fontana di Trevi e allora a volte un po’ si deve anche fantasticare.

© Michele Bonechi

Ci sono uno o più pezzi di design che, per il loro valore estetico e funzionale, ti piace riproporre nei tuoi progetti? E quando invece sei tu a disegnare gli arredi, che cosa ti guida?

Disegnare oggetti è la parte più divertente, che sia una sedia, uno specchio o un letto, ed è anche una palestra perfetta per poi fare design con le aziende. Ma i maestri sono i maestri e, come per i libri in una libreria, non può mancare mai un grande classico!

© Michele Bonechi

C’è invece un ambiente dal quale ti piace partire per innescare il processo creativo che poi influenzerà l’intero concept del progetto?

Il processo creativo spesso è molto più diluito nel tempo e nello spazio. E la chiave di un progetto arriva dopo che tutti gli input che ho assimilato vengono scossi. Solo allora i pochi che restano saldi si trasformano in progetto. La cosa più dura oggi nelle proprie ricerche è allontanarsi da dove l’algoritmo vorrebbe portarci. Nessuno strumento va demonizzato, e anche se certe volte quando apro Pinterest vorrei spaccare lo schermo, vi assicuro che all’interno c’è un mondo, solo che è difficile da scovare.

© Pasquale Formisano

Il tuo studio si distingue comunque per l’ottimo lavoro di racconto e divulgazione che porta avanti sui social, in particolare Instagram. Da architetto e designer, quale pensi che sia il valore aggiunto di conoscere e sfruttare al meglio questo tipo di linguaggio?

I social come li conoscevamo sono morti. Oggi in pochi postano nel feed, e i pochi momenti di vita personale finiscono nelle storie. Io cerco di metterci del mio e portare qualcosa agli altri. E allora i miei progetti sono spesso lo spunto per parlare di altre discipline, raccontare più che condividere. Ad esempio, uno dei temi che ha toccato di più la sensibilità del pubblico è stato quando abbiamo spiegato che una delle risorse più carenti nel mondo è la sabbia per le costruzioni: uno shock.

© Pasquale Formisano

Di recente, hai anche curato il progetto dell’abitazione di una nota influencer milanese. Sapere che quegli interni avrebbero avuto per forza di cose una maggiore esposizione, ha influenzato il tuo lavoro?

No, direi di no. Certamente, essendo quella la sua professione, gli spazi dovevano avere una certa attenzione alle possibili inquadrature. È indubbio che lavorare per clienti con un seguito importante può condizionare il futuro di una carriera, ma in fondo è sempre stato così. Solo che oggi abbiamo più nicchie rispetto a prima.

Rimaniamo sul tema degli algoritmi e delle intelligenze artificiali come Midjourney, che sta portando l’attenzione sugli automatismi anche in ambito creativo. Pensi che il lavoro del progettista sia in pericolo?

Credo che il luddismo non abbia mai messo in discussione il progresso ma la disumanizzazione del lavoro. Allo stesso modo, le AI ci permettono di avere sei concept foto realistici in un minuto circa, sessanta in dieci minuti. Lo sforzo che avremmo fatto per portare un numero così ampio di idee a questa resa sarebbe stato immenso e avrebbe limitato il tempo, magari, per l’affinamento del concept scelto. Un discorso diverso è invece quello delle proprietà intellettuali che le AI utilizzano per ottenere i loro risultati.

© Pasquale Formisano

Tra le tante attività, per Vogue scrivi anche alcuni approfondimenti in cui parli del rapporto fra architettura, design e moda. Quali sono i punti di contatto fra queste discipline?

Ho sempre cercato dei riferimenti per il mio lavoro al di fuori del mio settore e la moda è uno di questi. Credo che le storie di successo della moda, la sua comunicazione, possano insegnare molto a un ambito statico come l’architettura. Soprattutto, si dovrebbe provare a uscire da certe nicchie e parlare a un pubblico sempre più ampio. In questo senso le nuove figure dell’architettura come Bjarke Ingels o Thomas Heatherwick stanno facendo un lavoro importante.

© Emanuele Zamponi

A proposito di Heatherwick. Sembrava tutto perfetto fino al Vessel di New York e ai suoi tristi casi di suicidio: si è rotto qualcosa?

Heatherwick è un genio assoluto e forse uno dei pochi che prova raccontare ancora qualcosa attraverso l’architettura. Non credo che abbia delle colpe nella progettazione, ma certamente se si conosce la storia di quello che è successo fra i primi casi e l’ultimo, non è stato fatto molto da parte del gestore. L’emulazione è un tema molto importante in questi casi ed esistono tante possibilità per aumentare la sicurezza. Più che altro è un peccato che un’archi-scultura come il Vessel sia diventata un simbolo negativo.

Continuiamo a parlare di simboli, ma a Milano. Il Bosco Verticale, le Torri di City Life… qual è la nuova icona milanese secondo te?

Per me l’icona della rinascita milanese non può essere un luogo di fatto non accessibile ai più. Il vero edificio che sta cambiando un pezzo di città è Fondazione Prada e lo fa su più fronti: cultura, architettura, marketing territoriale e sviluppo immobiliare.

© Emanuele Zamponi

Per chiudere, a quali progetti stai lavorando in questo momento?

Stiamo terminando un magnifico appartamento in Via della Scrofa a Roma, dove con il colore abbiamo davvero osato: soffitti gialli e pareti rosa, riuscite ad immaginarlo? E sempre vicino Roma stiamo ripensando una villa Anni 70 a pochi passi dal mare. E poi c’è il mio nuovo studio a Milano…