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Le sfide del contract. Giulio Ceppi: perché il Design for All è una risorsa per tutti

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Tra i tanti elementi di cambiamento che si sono imposti nel settore contract&hospitality negli ultimi anni, ce n’è uno particolarmente importante: l’inclusività. Un tema che evidenzia numerose differenze tra i contesti presi in considerazione, con standard non sovrapponibili da un Paese all’altro. In Italia molto lavoro è stato fatto per adeguare le strutture ai principi che da tempo ispirano il Design for All e l’architettura inclusiva, ma la strada per ottenere risultati soddisfacenti è ancora lunga, specialmente se si amplia l’accezione della parola inclusività, andando oltre il concetto ghettizzante di disabilità per accogliere i bisogni di tutte le persone, a prescindere dalla natura della loro fragilità. Secondo l’architetto Giulio Ceppi, fondatore della società per management dell’innovazione e progettazione strategica Total Tool, impegnato da anni sullo studio di queste tematiche, l’inclusività passa da un’opera di progettazione più sensibile e attenta in senso generale, che non trascuri il valore estetico e si ponga l’obiettivo di migliorare la cultura del servizio in senso lato, di tutti e per tutti. L’abbiamo intervistato.

L’architetto Giulio Ceppi. © Giovanni Gastel

A che punto siamo in Italia sul tema dell’accessibilità agli spazi pubblici, siano essi appartenenti al mondo contract oppure al settore dell’hospitality?

Dal punto di vista normativo, per aspetti di base come, per esempio, quello delle barriere architettoniche, sicuramente negli ultimi 8-10 anni abbiamo coperto un gap significativo che ci separava dai Paesi del Nord Europa, storicamente più attenti al tema dell’inclusività negli spazi pubblici. D’altro canto, c’è ancora molto da lavorare sulla questione della sensibilità più generale a queste problematiche. In una società che invecchia sempre di più, solo per citare una criticità che si presenterà in modo massiccio nei prossimi anni, fare Design for All significa andare oltre la semplice normativa, allargando il discorso sull’accessibilità al di là della disabilità intesa in senso stretto. Devono essere i progettisti e i gestori delle strutture a farsi carico di questo bisogno, alzando l’asticella dell’offerta e migliorandola per tutti.

Secondo lei, come si crea questa cultura dell’inclusività che ancora manca?

Innanzitutto, è necessario non appiattirsi sulla normativa ma interpretarla operando uno scarto qualitativo. Oggi tutti gli alberghi devono avere una camera con servizi dedicati ai disabili. Banalmente, però, queste camere sono spesso esteticamente più brutte delle altre, perché progettate secondo un approccio ghettizzante, preoccupato soltanto di aggiungere il maniglione o l’alza-tazza. Occorre quindi mettere più eleganza e passione nella progettazione di questi spazi, che meritano di essere non solo funzionali, ma belli e fruibili come tutti gli altri. Un impegno che garantisce peraltro anche dei vantaggi economici, perché questa stessa camera, pensata per i disabili, se ha un’alta qualità estetica può essere affittata facilmente, last minute, anche a utenti non disabili.

In secondo luogo, come anticipato prima, bisogna cominciare a pensare alla disabilità non solo in termini di disabilità grave, perché le sfumature della fragilità sono molte di più. Un albergo inclusivo è un albergo che viene incontro ai suoi ospiti attraverso, per esempio, l’attenzione alle scelte e alle intolleranze alimentari nel suo ristorante, che offre servizi in più lingue dedicati agli ospiti stranieri, e così via. Da quest’ultimo punto di vista, possiamo dire che senza dubbio negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti.

Cutlery for All – Codesign di posate per tutti – Alessi (2016).

Mi fa qualche esempio concreto?

Posso citare senza dubbio il progetto che rappresenta la base di tutte le mie ricerche nella progettazione di spazi inclusivi, e cioè l’Autogrill Villoresi Est, realizzato ormai diversi anni fa. In realtà, il lavoro che abbiamo svolto lì può essere letto semplicemente come un potenziamento della cultura del servizio, perché in un ambiente di quel tipo bisogna pensare a una molteplicità di utenti: persone che viaggiano con bambini, persone che viaggiano con i cani, anziani, persone con problemi alimentari o di comunicazione. Si tratta di un esercizio di costante attenzione verso le difficoltà di persone tutte diverse tra loro, adeguandosi di volta in volta al pubblico a cui ci si rivolge, al posizionamento della struttura, alle esigenze dello spazio. Si lavora sui dettagli, prendendo in considerazione la progettazione degli interni, le luci, i colori, la segnaletica, l’ambiente sonoro, per cercare di offrire la massima possibilità di scelta e la totale libertà di utilizzo dell’ambiente. Questo significa rendersi conto della diversità, cogliere le diverse sensibilità e i vari bisogni, superando il semplice adeguamento a degli standard fissi, che sono molto comodi per il progettista ma insufficienti. In Italia, il Trentino Alto-Adige è un modello di accoglienza da questo di vista.

Pila Termica – Autogrill Villoresi Est (2012).

Quanto aiuta la tecnologia?

La tecnologia aiuta molto, perché rende tutto più fluido, flessibile e personalizzabile. Gli interventi sulle luci, sui sistemi di controllo e climatizzazione risultano molto semplificati, a patto che si tratti di una tecnologia intuitiva con interfacce user-friendly per tutti, comprese le persone ipovedenti e/o con difficoltà cognitive o sensoriali. In generale, comunque, la tecnologia digitale può rappresentare un’importante risorsa nel progettare spazi più inclusivi e garantire la massima libertà di utilizzo, in particolare negli alberghi, dove gli utenti degli spazi variano continuamente e ci deve essere una forte adattabilità alle diverse esigenze. Anche da questo punto di vista, l’esperienza ci insegna che si può ancora migliorare parecchio.

Su quali progetti d’inclusività sta lavorando il suo studio in questo momento?

Attualmente stiamo studiando nuove modalità di fruizione degli spazi museali e delle scuole, attraverso l’uso di avatar: in sostanza si tratta di piccoli robot che permettono a chi è vincolato a casa, in modo permanente o anche solo temporaneo, di essere concretamente presente negli ambienti, muovendosi e interagendo con le altre persone, che sullo schermo di un tablet vedono chi è “alla guida” degli avatar da remoto. Questi strumenti sono gestibili molto facilmente anche da chi è affetto da disabilità gravi, grazie a interfacce studiate appositamente. Un altro esempio delle enormi opportunità che ci riserva la tecnologia.

ADI Design Museum, Milano (2020).

Un’esperienza, quella negli spazi museali, che lei ha maturato anche con il lavoro svolto all’interno del Museo ADI di Milano.

Sì, presso il Museo ADI ho svolto il ruolo di consulente responsabile proprio sul tema dell’inclusione. In quel caso l’inclusività è stata interpretata anche in senso macroscopico: il Museo è infatti totalmente aperto alla città, a tal punto che può essere attraversato per spostarsi da un lato all’altro dell’area urbana senza la necessità di pagare un biglietto.

ADI Design Museum, Milano (2020).

Anche questa è inclusione dunque?

Sì, e in questo ambito devo dire che gli alberghi hanno fatto passi da gigante negli ultimi 15 anni: oggi è normale andare a fare l’aperitivo o la cena all’interno di un hotel, fino a pochi anni fa era impensabile. Poi certo, oltre a ciò, gli spazi dell’accoglienza, per definirsi veramente tali, devono essere aperti a ogni componente della comunità, e torna quindi il tema dell’accessibilità. Accogliere significa poter accogliere tutte le categorie di persone, e questo non significa rinunciare alle proprie prerogative e al proprio posizionamento, significa invece offrire qualità e flessibilità, partendo dal ragionamento sulle fasce più deboli per garantire un servizio migliore a tutti.