HomeArchitetturaIl senso di essere architetti: Matrix4Design incontra OBR – Open Building Research

Il senso di essere architetti: Matrix4Design incontra OBR – Open Building Research

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Un concetto di architettura che sia al tempo stesso specchio del mondo e strumento del suo cambiamento, una visione del progetto come elemento di relazione tra l’uomo e l’ambiente, capace di promuovere il senso di comunità attraverso la valorizzazione delle identità individuali e molteplici. Il lavoro di studio OBR – Open Building Research, fondato nel 2000 dagli architetti Paolo Brescia e Tommaso Principi (dopo un’importante esperienza a fianco di Renzo Piano) e diventato presto un vero e proprio design network distribuito tra Milano, Londra e Mumbai, trova le sue radici in una meditazione profonda sul senso del progettare e del costruire, in un percorso sempre aperto a nuovi stimoli e suggestioni, in costante sintonia con l’evolvere delle abitudini umane. Prendendo spunto dalla mostra Re-build in the built environment, conclusasi poche settimane fa alla Triennale di Milano e focalizzata sul tema del “costruire sul costruito”, abbiamo chiesto a Paolo Brescia di raccontarci che cosa significa essere architetto oggi, tra interrogativi sul presente e aspettative per il futuro.

Partiamo dalla mostra Re-build in the built environment, conclusasi alla Triennale di Milano lo scorso 20 gennaio. Siete stati tra i protagonisti con un progetto che gioca in casa, quello relativo alla Terrazza Triennale. Ci raccontate le caratteristiche principali del vostro intervento?

 «La Terrazza Triennale è stata pensata in occasione dell’Expo 2015, per valorizzare la copertura del Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio.

Durante il sopralluogo del concorso, lo ricordo come se fosse ieri, è stato impressionante l’effetto sorpresa. Quella terrazza, infatti, era sempre stata chiusa al pubblico e, benché fossimo fin da studenti del Politecnico assidui frequentatori della Triennale, nessuno di noi ne conosceva l’esistenza. La vista era sorprendente, avevi la sensazione di essere al centro di tutto.

Il nostro desiderio era dunque quello di restituire questa nuova centralità ai Milanesi, facendo di questa terrazza un luogo super-pubblico, vissuto da tutti, in cui condividere gli stessi valori all’interno dello stesso spazio, un salotto urbano sul Parco Sempione, il Castello Sforzesco e il nuovo skyline di Milano.

Ammetto però che subivamo anche un’altra strana sensazione: quella di essere come dei nani sulle spalle di un gigante. Non c’era nulla da inventare, c’era già tutto. Al limite volevi sentirti piccolo, scomparire, essere il meno evidente possibile, in punta di piedi, ma senza mimetizzarti, bensì essendo “già lì da sempre”.

Così abbiamo pensato a un padiglione vetrato come una serra sospesa sul parco, arretrata rispetto al perimetro dell’edificio storico di Muzio, ma tale da recuperare lo stesso passo strutturale. Il perimetro del padiglione è completamente apribile sui quattro lati, creando un sistema senza soluzione di continuità spaziale con la terrazza, non avendo più angoli che ne delimitano lo spazio.  L’ospite è accolto inizialmente da un piccolo orto aromatico disegnato dal paesaggista Marco Perazzi: lo stesso orto, oltre a servire direttamente il ristorante, protegge i commensali e crea una relazione di figura/sfondo con il Parco Sempione.»

Costruire sul costruito, tra identità e trasformazione, è una delle sfide decisive dell’architettura contemporanea. Qual è il vostro modo di affrontare progetti di questo tipo?

 «Credo che costruire sul costruito imponga un nuovo punto di vista. In genere si pensa che il costruire sia finalizzato alla costruzione, e che il costruire e il costruito stiano tra loro come fine/mezzo. In realtà io credo che lo schema fine/mezzo ci precluda l’accesso ai rapporti essenziali tra costruire e costruito.

È chiaro che, dovendo azzerare l’ulteriore consumo di suolo e favorire interventi che rivalutino ciò che abbiamo ricevuto, il costruire e il costruito debbano assumere un nuovo significato contemporaneo all’interno di una visione unitaria. L’opera, infatti, non è la somma delle sue parti, essa è un tutto.

Credo che per costruire sul costruito occorra un cambio di paradigma. Nel costruire sul costruito non c’è “stile”, non c’è differenza tra logica espressiva e logica costruttiva. L’architettura è poietica, nel senso classico del saper fare (bene). Il tecnico sa il come. L’architetto deve domandarsi anche il perché.

Sono convinto che costruire sul costruito possa produrre una nuova bellezza, che celebrerà il lavoro di chi è venuto prima di noi e la vita di chi ha abitato prima di noi, prolungando in un certo senso la loro vita. Ciò sarà possibile se l’architetto, come un antico greco, saprà tenere insieme teoria e pratica, fare e pensare, ragione e sentimento.»

Il vostro lavoro si lega sempre strettamente alla realtà che lo ospita, in un continuo scambio con la natura del luogo, la comunità e le sue esigenze. Come si trova il giusto equilibrio tra la volontà di dare la propria impronta al progetto, guidandone lo sviluppo, e la necessità di sintonizzarsi con il contesto, rivitalizzandolo senza snaturarlo?

«Penso che la verità del progetto stia nelle sue condizioni contingenti. Non esiste una verità a-priori. Essa si “costruisce” dalle contingenze dell’opera, non è mai una verità “applicata”. Tuttavia penso anche che l’opera diventi una sorta di “memoria di un futuro assoluto”, con una vita propria al di là del tempo che sopravvive alle sue funzioni.

Ma, se è vero che la verità dell’opera è a partire dalle sue contingenze, è anche vero che è l’architettura che fa il luogo. Progettare è costruire un pensiero, e costruire è pensare. Quello che inseguiamo facendo quello che facciamo è un’idea di architettura che sia “già lì da sempre”.»

Il nome del vostro studio è un acronimo: OBR – Open Building Research. Se doveste spiegarne il significato in poche parole, quali usereste? Qual è, in generale, il tratto essenziale che contraddistingue la vostra idea di progetto?

 «Il nome OBR – Open Building Research – viene, come spesso avviene, da una serata al ristorante tra amici, gli stessi con cui è nato il collettivo nel 2000. Volevamo esprimere qualcosa che sintetizzasse la “libera ricerca sul costruire” e al tempo stesso volevamo emanciparci dalla classica impostazione di studio professionale gerarchico.

Da noi in OBR tutti sono ugualmente coinvolti nel processo progettuale. Quando cominciamo un nuovo progetto, abbiamo imparato a coinvolgere chi ne sa più di noi, condividendo la stessa visione. La scelta iniziale di non specializzarci in nulla di particolare, ci consente di ibridare saperi diversi acquisiti in esperienze diverse. Il design in questo modo non è l’input ma l’output, non è l’obiettivo ma il risultato. In questo modo gli esiti saranno superiori alle aspettative iniziali. Il progetto non è un fatto individuale, è una common task. È chiaro che all’inizio del processo non la pensiamo tutti esattamente allo stesso modo, ma discutiamo, spesso anche animatamente. A distanza di tempo devo dire che è proprio il dialogo – soprattutto l’ascolto reciproco – la linfa vitale del processo progettuale.

Lavorando insieme in OBR, stiamo convergendo verso un’idea di progetto come processo collettivo, cooperativo, evolutivo, che si sviluppa mettendosi in gioco, prendendosi dei rischi, anche facendo degli errori, ma pur sempre esplorando il futuro e indagando l’ignoto, che poi è l’unica meta verso cui andare, se dobbiamo andare da qualche parte.»

 Su quali realizzazioni vi state concentrando attualmente?

 «Al momento siamo impegnati negli Emirati, in India e in Italia. 

A Dubai stiamo seguendo il progetto dello sviluppo di Jafza di fronte a Dubai Expo 2020. Si tratta di un centro multifunzionale che si estende per 3 km lungo l’highway verso Abu Dhabi. Lo stiamo immaginando come un luogo super-urbano, che favorisca l’incontro, lo scambio e la scoperta inattesa di qualcosa che non stai propriamente cercando, che poi è la caratteristica essenziale dello spazio pubblico. Per questo motivo abbiamo pensato ad una promenade all’aperto ma coperta, che ha come riferimento il Suq, illuminata naturalmente e articolata in una serie di piazze interne su più livelli che consentono diverse modalità di mobilità alternative in continuità con l’Expo 2020. Vorremmo dimostrare che anche a Dubai è possibile estendere alcune attività aggregative outdoor, non più importando modelli da altrove, ma grazie all’evoluzione di tipologie locali (come appunto il Suq) reinterpretate site specific in chiave contemporanea.

In India stiamo realizzando un cluster a Jaipur con laboratori, art galleries, retail e hotel. In mancanza di una vera e propria industria dell’edilizia (come avviene per esempio in Cina), la nostra intenzione è dimostrare che è possibile sviluppare un progetto di real estate con un alto grado di sostenibilità sociale, mediante la valorizzazione delle maestranze artigiane e artistiche locali, contribuendo in questo modo allo sviluppo economico e culturale del territorio. Lavorando con gli artigiani e gli artisti locali abbiamo cercato di operare una trasposizione dalla piccola scala dell’art and craft alla grande scala dell’architettura, combinando la progettazione parametrica di OBR con la tecnologia costruttiva basilare locale. In questo caso, l’approccio è quello della Multiplicity, intesa come ripetizione (artigianale), e non come moltiplicazione (industriale). L’obiettivo che stiamo perseguendo in India, non è un progetto for India, ma by India.

In Italia stiamo lavorando prevalentemente sul tema del “costruire sul costruito”, come il complesso per uffici di Generali in Via Bassi a Milano riutilizzando le strutture di un precedente complesso, il Museo di Mitoraj a Pietrasanta all’interno di un vecchio mercato comunale dismesso, il riuso dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Genova per CDP ripensato con nuove funzioni aperte alla città, il porto e soprattutto il retro porto di Santa Margherita Ligure che diventerà un nuovo fronte della città sul mare, e il complesso di Marina Grande ad Arenzano ri-naturalizzando il vecchio tunnel della ferrovia.»

Prossimi obiettivi da raggiungere?

«Indagare la realtà, soprattutto quella che verrà, attraverso l’architettura.

Come dice Paul Virilio, oggi viviamo in un mondo che è diventato un mondo-città, all’interno del quale circolano informazioni, messaggi, immagini, cose e persone… Ma è anche vero che la città oggi è sempre più una città-mondo, con le proprie differenze etniche, culturali e sociali (smentendo in un certo senso le illusioni del mondo-città). È su questo terreno incerto, sospeso tra città e mondo, che pensiamo all’architettura oggi, intesa come spirito del nostro tempo, come specchio della nostra realtà. Ora, essendo la realtà in continuo mutamento, credo che come architetti siamo chiamati a manifestare questo divenire.

Non so se con l’architettura cambieremo il mondo, ma credo che inseguendo un’idea di bellezza come valore comune, di tutti, allora possiamo fare qualcosa per migliorarlo.»