A cercare il suo nome su Wikipedia, la definizione si riduce a due semplici parole: architetto e designer. Ma per descrivere la debordante personalità di Fabio Novembre, i suoi mille interessi e i suoi numerosi talenti, non basterebbe probabilmente l’intero dizionario. Leccese d’origine, milanese d’adozione ma, soprattutto, cittadino del mondo, è uno dei creativi italiani più geniali in circolazione: pochi come lui sono riusciti ad occuparsi di progetto collaborando con marchi iconici e toccando gli ambiti di applicazione più disparati, dalle sedi aziendali agli showroom, dai ristoranti ai complementi d’arredo, senza mai perdere nulla della propria identità unica e originale. In occasione della sua investitura all’interno del team direttivo di Domus Academy lo abbiamo intervistato e ci siamo fatti raccontare un po’ del suo mondo, dove le idee (e la bellezza) sono sempre in movimento.
Cominciamo dall’ultima novità, ossia il tuo ingresso in Domus Academy come direttore scientifico e brand ambassador. Che cosa ti aspetti da questa esperienza? Quali obiettivi ti poni?
«Per me Domus Academy, come brand, è stato sempre un punto di riferimento da quando ero studente. Domus Academy è la casa del design in Italia, ma è anche la casa del metodo del design, del resto l’anagramma di Domus Academy è proprio Modus: modo, maniera, misura ecc. tanti significati per un’unica parola. I ragazzi devono vivere qua dentro, devono sentirla come una casa vera e propria, soprattutto considerando l’intensità dei corsi della scuola, che in questo senso non lascia molte altre possibilità. Il mio lavoro è appena iniziato ma come primo obiettivo ti posso dire che immaginiamo di garantire agli studenti ancora un maggior contatto con professionisti rinomati».
A tuo parere oggi gli architetti e i designer affermati hanno una responsabilità umana e professionale nei confronti delle nuove generazioni? È possibile trasmettere il “mestiere”? In che modo?
«In Domus Academy da sempre consideriamo gli studenti non come allievi ma come colleghi da formare, alla maniera degli studi bottega rinascimentali. È qui il segreto, bisogna essere consapevoli di quello che si è ricevuto per dare al meglio».
Da un altro punto di vista, l’aspetto umano accomuna anche il design d’interni per il nuovo ristorante Attimi di CityLife Shopping District e la realizzazione dei nuovi locali della catena Briscola – Pizza Society, due progetti recenti uniti dal tema della condivisione del cibo e del tempo libero. Come si fa a creare spazi che siano confortevoli ma allo stesso tempo “esperienziali”, capaci di lasciare un ricordo speciale al cliente?
«Subito dopo essermi laureato in architettura ho studiato regia a New York e questo ha inevitabilmente definito il mio approccio progettuale. A me piace raccontare storie, e negli spazi che realizzo queste storie prendono vita. Il pubblico è componente di progetto. Sono convinto che i miei spazi offrano la possibilità di essere attori senza dover sostenere provini».
Il valore del cibo è anche al centro della mostra “Buoni come il pane”, che dal 5 dicembre al 13 gennaio raccoglierà in Triennale fondi per l’associazione Pane quotidiano Onlus e a cui tu partecipi con una personale opera che interpreta il concetto di “pane”. Secondo te, in che modo il design può/deve avere un valore “sociale”?
«Il design è una naturale attitudine dell’uomo, l’unico animale capace di modificare a suo favore le condizioni che lo circondano invece che adattarvisi. Bisogna però ammettere che questa particolare attività lo porta spesso a sconvolgere gli equilibri da cui dipende, danneggiando più o meno consapevolmente sé stesso e il suo ambiente. Io credo che la vita sia soprattutto un problema di allineamento delle priorità, e forse fare design è proprio questo: stabilire le proprie. Un buon designer deve essere prima di tutto una buona persona, in maniera che la sua voglia di trasformazione non evolva in forme di prevaricazione.»
Come architetto e designer hai lavorato in tutto il mondo, ma il tuo studio ha sede a Milano e le tue origini sono pugliesi. In che cosa ti senti profondamente italiano? Come si riflette questo aspetto sul suo lavoro?
«Io sono nato a Lecce, una città con un’estetica fortemente barocca. Puoi non capire i tempi e i modi, ma poi il passato te lo ritrovi inconsciamente addosso. Ad ogni modo le città hanno un’anima collettiva cui ciascuno di noi deve contribuire, e l’identità è un valore in continua mutazione, non un nuovo Graal per giustificare crociate. Credo che la celebre canzone di Marvin Gaye, Wherever I Lay My Hat (That’s My Home), rappresenti bene lo stato d’animo con cui ci muoviamo inquieti sulla superficie del nostro pianeta. Ovunque sia andato, ovunque abbia appoggiato il mio cappello, io mi sono sentito a casa. Credo nel diritto di terra, non in quello di sangue, e Milano mi appartiene perché ho deciso di fermarmi qui per formare una famiglia.»
Infine, qual è per Fabio Novembre la prossima sfida da vincere?
«La prossima…».