Dalla formazione con le avanguardie e il Gruppo Memphis di Ettore Sottsass ai progetti internazionali per i grandi marchi del lusso e dell’imprenditoria, la carriera di Massimo Iosa Ghini meriterebbe molto più spazio delle poche righe di introduzione a questa intervista. E del resto, come riassumere quarant’anni di progetti, così ricchi e decisivi che già dieci anni fa la Triennale di Milano decise di dedicargli un’antologica? Abbiamo quindi scelto la strada più semplice: lasciare parlare lui, dell’architettura di oggi e di domani, delle sfide imposte dalla tecnologia e dall’ambiente, della capacità di sorprendersi ancora ogni volta che varca i confini della sua amatissima Bologna. Ecco le sue risposte alle nostre dieci domande.
La prima cosa che colpisce scorrendo le tappe della sua carriera è la straordinaria varietà dei progetti che ha realizzato: dai trasporti al retail, dall’hospitality ai musei fino al design di prodotto, esplorando settori e ambienti diversi. Qual è il fil rouge che contraddistingue tutti i progetti di Massimo Iosa Ghini?
C’è senza dubbio una firma di carattere stilistico, riconducibile a forme naturali e organiche, a cui si aggiunge una ricerca sui contenuti, con l’inserimento di componenti innovative in ogni progetto, per quanto possibile. L’applicazione pedissequa del manuale non mi è mai interessata, ci deve sempre essere una tensione verso l’innovazione. Credo che realizzare progetti capaci di contenere elementi nuovi, inconsueti, capaci di sorprendere e indicare nuove direzioni, sia una necessità non soltanto mia ma dell’intero sistema.
Come sta cambiando secondo lei in questi anni il lavoro del progettista?
Stiamo assistendo a cambiamenti che porteranno a conseguenze ancora difficili da immaginare. Le prime applicazioni dell’intelligenza artificiale dimostrano che la fase concettuale del progetto ne verrà completamente rivoluzionata. Oggi con un input di poche parole posso riuscire a produrre un’immagine, un domani forse un’intera casa. Potrebbe diventare automatico combinare l’aspetto progettuale con quello tecnico-normativo, a cui per esempio io ho dedicato sempre più tempo negli ultimi anni. In generale, comunque, penso che a essere messa in discussione sarà l’idea, piuttosto che il processo: se alle origini l’unico modo di visualizzare un progetto era disegnarlo con la matita, abbiamo poi attraversato l’epoca dei rendering e della facilità di rappresentazione; ora stiamo passando a un livello in cui a definire l’idea non è più una mente solo umana, ma si tratta più precisamente di una collaborazione tra l’uomo e la macchina. Questo apre orizzonti inesplorati, sicuramente affascinanti. Resta il fatto che qualsiasi macchina, per quanto sofisticata, ha bisogno di un pilota.
Il suo studio è a Bologna e lei ha lavorato spesso in e per questa città. Che cosa la lega a Bologna e quanto la città è d’ispirazione per il suo lavoro?
Bologna è la punta del mio compasso, il riferimento da cui partire per tracciare cerchi sempre più ampi. Sono legato alla città per vari motivi, familiari e professionali, e credo che girare il mondo a partire da qui mi consenta di conservare una prospettiva fresca, di sorprendermi ancora ogni volta che vado altrove.
Proprio a Bologna ha realizzato il People Mover (Marconi Express), il servizio di trasporto che collega il centro città all’aeroporto. Come nasce il progetto?
Tutto cominciò diversi anni fa, quando mi occupai della realizzazione di una delle principali stazioni della metropolitana di Hannover, in Germania. Ci si rese conto dei vantaggi del trasporto intermodale, che in Italia erano sempre stati trascurati. Prendendo ispirazione da quell’esperienza, a Bologna l’intento è stato quello di semplificare la logistica degli spostamenti attraverso una bretella elettrica che potesse collegare la stazione ferroviaria all’aeroporto. Tra l’altro, per offrire un ulteriore servizio alla città, è stata aggiunta anche una stazione intermedia in un’area in corso di sviluppo. Dal punto di vista realizzativo, abbiamo conciliato l’esigenza di costruire una struttura poco impattante con quella di conferirle comunque un’identità visibile: gli elementi presentano un taglio modernista ma evocano al contempo l’architettura a falde inclinate tipica dei casali della Pianura Padana. Come progettisti abbiamo poi molto insistito per inserire i pannelli fotovoltaici sulla linea, una risorsa che consideriamo d’interesse generale.
Sempre a Bologna ha realizzato un progetto peculiare, il Design Club Collection, dove la riqualificazione di un edificio storico incontra le nuove forme dell’abitare. Che cosa sono i branded apartments?
L’idea alla base di questo progetto è stata quella di creare una serie di appartamenti residenziali, i branded apartments appunto, che offrissero al fruitore la possibilità di scegliere tra vari stili, rappresentati da oggetti che provengono tutti dalla grande tradizione del design italiano e dei suoi maestri, da Castiglioni a Sottsass a Starck, solo per citarne alcuni. Si tratta in poche parole di un’applicazione del concetto di “Museo del Design” a delle unità abitative. Per me, in quanto progettista, è stata un’opera molto divertente da realizzare, in cui ho potuto riversare la grande passione per il design.
Anche per l’interior design del Brickell Flatiron di Miami ha selezionato un parterre di eccellenze italiane dell’arredo. Perché il Made in Italy è ancora la scelta più giusta quando si tratta di alta qualità?
Io credo che la principale risorsa del nostro Paese sia la capacità di produrre innovazione e di farlo con qualità. Questo perché a noi piace la qualità, la cerchiamo, la percepiamo, fa parte della nostra cultura, ci viene d’istinto. La sfida però non consiste soltanto nel far diventare questa nostra capacità interessante e apprezzata anche fuori dall’Italia, ma ha a che fare soprattutto con l’abilità nell’attualizzarla. Ogni prodotto deve presentare un elemento di novità, di sorpresa. Altrimenti il concetto di Made In Italy rischia di rimanere una semplice formula retorica.
A questo proposito, arriviamo al suo lavoro di designer. Dalle storiche collaborazioni con Cassina, Caleido, Moroso, Poltrona Frau, Juno a Natuzzi, Devon&Devon: sono molte le aziende con cui ha collaborato. Da dove arriva l’ispirazione?
Tutte le mie collaborazioni nascono dall’esigenza di creare qualcosa che non c’è. La ricerca del nuovo è fondamentale, dal punto di vista estetico e tecnologico. Certo, resta saldo il legame con la storia dell’azienda con la quale si collabora e allo stesso tempo si deve tenere conto dei bisogni del fruitore, ma l’elemento di novità non deve mai mancare. Da questo punto di vista, i valori imposti dalla ricerca della sostenibilità rappresentano uno spunto molto importante per l’innovazione dei prodotti. Le aziende stesse mi sembrano disposte al cambiamento sempre più sinceramente, e in maniera non retorica.
Il tema della collaborazione con le aziende si collega al settore retail. Qual è il suo modo di lavorare in questo settore? Come si relaziona alla committenza?
Se vogliamo usare una metafora musicale, possiamo dire che quando il designer crea il prodotto è un autore, quando invece si occupa di retail è un interprete. Il lavoro con i brand certamente richiede una grande capacità di ascolto e in generale preferisco lavorare con aziende con le quali riconosco di avere delle affinità, in particolare riguardo alla forza espressiva che nei miei progetti non manca mai. Ci deve essere una reciproca comprensione per ottenere un risultato eccellente.
A che cosa sta lavorando in questo momento?
Al momento stiamo lavorando su diverse case private, e in generale posso dire che sull’onda della pandemia, e delle agevolazioni che sono state offerte di conseguenza, il settore residenziale ha visto incrementare notevolmente il numero dei progetti. Stiamo poi chiudendo l’intervento sull’Oko Building, la nuova torre per uffici di Miami, dove abbiamo curato il progetto d’interni. È un buon esempio di come gli architetti italiani siano molto richiesti all’estero per l’interior design dei grandi progetti contract, sicuramente grazie alla loro cultura progettuale ma anche e soprattutto per via della squadra di aziende italiane che sono in grado di coinvolgere per la realizzazione.
C’è un settore che ancora le manca e dove le piacerebbe mettersi alla prova?
Posso dirle che cosa mi piace fare adesso: progettare case private. Oggi, rispetto al passato, sono molto più propenso all’ascolto e alla relazione con il committente. Questo meccanismo è molto interessante per me: ora che per ragioni anagrafiche ho superato la fase della necessità espressiva trovo affascinante portare il mio punto di vista nel confronto con l’altro e lavorare su un dialogo, uno scambio che sia il più possibile generativo di benessere, valore e armonia con l’ambiente.